“Il restauro della Badia benedettina di Caccamo”

Inferriata
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Martedì 17 maggio 2016, a Palazzo Ajutamicristo, alle ore 17.00 per il ciclo “Cantiere aperto 2016” il nuovo incontro dal titolo: “Il restauro della Badia benedettina di Caccamo”.

Interverranno: Lina Bellanca architetto e dirigente della Sezione per i Beni architettonici della Soprintendenza, “Il restauro della chiesa della Badia di Caccamo”, Elvira D’Amico storico dell’arte e dirigente dell’unità operativa 8 – Demanio culturale, “L’inedito documento di allogazione della decorazione plastica e pittorica “secondo il disegno del cav. don Vincenzo Giovenco e Abbate” (1754) e il prof. Antonio Cuccia storico dell’arte ed esperto in scultura lignea, “Le opere d’arte mobili della chiesa e la cultura artistica caccamese”.
Chiuderà l’incontro la dott.ssa Maria Elena Volpes, Soprintendente per i Beni culturali e ambientali di Palermo.
La devozione e l’arte hanno popolato la Sicilia, anche nei centri più appartati, di opere preziose e a volte addirittura stupefacenti. È il caso della Chiesa di San Benedetto alla Badia di Caccamo, gioiello barocco, ricco fra l’altro di uno smagliante pavimento maiolicato del XVII secolo di 180 metri quadrati, di un monumentale altare in legno intagliato e di maestose grate in ferro battuto dorato.
La Chiesa è stata restituita all’originario splendore dal restauro condotto dalla Soprintendenza per i Beni culturali e ambientali di Palermo e concluso nel settembre 2012.

La piccola chiesa, ad unica navata scandita da paraste corinzie e profondo arcone presbiteriale, fu rivestita intorno al 1755 di un nuovo manto decorativo, consistente in aggraziati stucchi di stile barocchetto-rocaille ad opera di epigoni serpottiani -il più famoso dei quali è Bartolomeo Sanseverino-, e scenografici affreschi in stile classicistico-barocco ad opera del poco noto pittore Antonio Petringa. Controversa è invece la datazione del pregevole pavimento maiolicato, tramandatosi in tutta la sua interezza, la cui attribuzione ondeggia tra la bottega di Nicolò Sarzana, che eseguì poco prima un pavimento similare per la vicina chiesa della SS. Annunziata (1752), e una sconosciuta bottega palermitana del primo trentennio del secolo. Il rinvenimento di un lungo documento di allogazione del rifacimento settecentesco della chiesa, fa luce anche sulla prassi dell’ideazione di simili apparati decorativi- già nota ad esempio per gli oratori serpottiani-, da parte di un architetto o disegnatore, la cui presenza potrebbe far luce anche sull’ideazione dello staordinario pavimento della stessa chiesa. (Elvira D’Amico)

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SCHEDA INFORMATIVA

La Chiesa del Convento di San Benedetto alla Badia di Caccamo

Il Monastero delle Benedettine di Caccamo, secondo la tradizione, si trovava fuori dalle mura del paese e alla fine del XV secolo, a causa delle continue incursioni barbaresche, si ritenne necessario il trasferimento delle monache in un sito più sicuro all’interno dell’abitato. Fu scelto un luogo nella zona più antica della città, vicino alla Chiesa dell’Annunziata e a quella di San Marco, entrambe di fondazione medievale. Si tramanda che i lavori della Badia risalgono al 1512, mentre quelli per l’edificazione della chiesa ebbero inizio intorno al 1572 – secondo la tradizione, per volere di Anna Henriquez Cabrera, che assegnò nel suo testamento 1000 scudi. I lavori di abbellimento si protrassero per diversi anni e si conclusero probabilmente nel 1748, data incisa sul portale di ingresso all’interno dell’emblema benedettino.
Nel 1866, a seguito della legge sulla soppressione degli ordini religiosi, il monastero e la chiesa furono confiscati dallo Stato e successivamente, nel 1980, divennero proprietà del Comune, che destinò la Badia a scuola, mentre la chiesa, pur rimanendo di proprietà del Comune, fu affidata alla Rettoria alla parrocchia dell’Annunziata.
La Chiesa, ad unica navata con profondo presbiterio a pianta quadrata, è rivestita da stucchi. Le due figure femminili in abiti settecenteschi ai lati dell’arco trionfale raffigurano le due principali virtù ecclesiastiche la “Castità” e l’’“Obbedienza”, chiaramente ispirate ai modelli di Giacomo Serpotta.
Di particolare interesse è l’altorilievo, all’interno di una lunetta sopra l’altare maggiore, raffigurante “La cena di Emmaus” con Cristo al centro tra i due apostoli, vestiti da pellegrini.
L’attribuzione degli stucchi negli anni è stata controversa, ma si tende a vedervi il frutto di una collaborazione tra Procopio Serpotta e Bartolomeo Sanseverino. Negli anni 1755 e il 1756 Procopio Serpotta e Bartolomeo Sanseverino, figlio e allievo di Giacomo, realizzarono la decorazione della Chiesa dell’Annunziata e probabilmente nello stesso periodo intrapresero i lavori per la chiesa di San Benedetto, ma la morte di Procopio interruppe il sodalizio e fu Sanseverino a completare i lavori già iniziati.
Stilisticamente è possibile attribuire le Virtù a Bartolomeo, mentre “La cena di Emmaus” per la composizione meno accademica e un chiaroscuro più drammatico è da attribuire a Procopio Serpotta. La presenza della serpe sul muretto della composizione, secondo Bellafiore, avvalora l’attribuzione.
La semplice volta a botte della navata è arricchita da due affreschi. Il primo, “Il miracolo di San Benedetto”, raffigurante il Santo tra una folla di astanti, che dal manto fa cadere del pane che due fanciulli raccolgono su un vassoio, è firmato in basso dall’autore “Antonino Petringa” e datato 1735. L’autore, di cui si conoscono poche notizie, non risente della vivace lezione di Borremans che in quegli anni aveva dipinto il quadro dell’ “Annunciazione” proprio per l’omonima chiesa, ma rimane ancorato al più rassicurante immobilismo della cultura marattesca. Il Petringa imposta la scena secondo la classica fuga barocca dal basso verso l’alto, disponendo i personaggi su vari piani e ricorrendo anche a particolari espedienti per aumentare la spettacolarità, infatti fa fuoriuscire dalla cornice il piede e la lancia del soldato. Sempre dello stesso autore, il secondo affresco, posizionato all’estremità della navata nella zona dove ricade il coro sopra l’ingresso, l’ “Assunzione di Maria” raffigura la Vergine che si innalza verso il cielo sorretta da angeli lasciando meravigliati in basso i dodici apostoli.
Nella volta del presbiterio l’affresco centrale, sempre dello stesso pittore, raffigura il “Sacrificio di Isacco”; sulla destra è raffigurata l’allegoria dell’Abbondanza.
Caratteristica della chiesa è l’estesa pavimentazione maiolicata (ciascun mattone misura cm. 17,5×17,5), perfettamente leggibile, a disegno unico, che ricopre l’intera superficie della chiesa.
La fitta decorazione è un intreccio di tralci e volute blu e gialle, su cui si arrampicano pappagallini, gufi e uccelli, curati anche nei più piccoli particolari, che secondo la simbologia religiosa esprimono l’anelito dell’uomo a liberarsi del corpo per ricongiungersi a Dio. Al centro tra due telamoni, entro una cornice mistilinea decorata da una robbiana di foglie, fiori e frutti, è dipinto un paesaggio marino con una nave che si dibatte tra i flutti, mentre sulla costa alcuni pastori guardano atterriti la scena, all’ombra di una torre costiera; in alto in un cartiglio la scritta: concutitur non obruitur, chiara allusione alla Chiesa, paragonata ad una nave che viene sbattuta dalle onde, ma che non affonda. Paesaggi agresti, più in basso busti bicromi in giallo e verde su piedistalli di gusto classico sullo sfondo di una conchiglia circondano un grande medaglione poco leggibile antistante l’ingresso. Nel presbiterio la pavimentazione ripropone gli stessi motivi vegetali e zoomorfi, ma diverso è il tema del medaglione posto davanti l’altare: un paesaggio pastorale con un grande sole che illumina la scena con la scritta felicitas omen, un augurio di felicità derivante solo dalla fede in Dio.
Da Giuliana Alajmo (1956) e da altri studiosi (Sunseri Rubino, 1928; Giacomazzi, 1965) la bella pavimentazione della Badia di Caccamo è stata ritenuta opera del Maestro Nicola Sarzana, attribuzione ritenuta plausibile, dato che egli nel 1751 aveva ricevuto una commissione per la pavimentazione della chiesa della Compagnia della SS. Annunziata di Caccamo e l’arciprete di quel tempo era il Sac. Filippo Gallegra, fratello della Badessa del Monastero benedettino Suor Maria Grazia, che avrebbe potuto in seguito commissionare la pavimentazione allo stesso Maestro. Una tesi non condivisa dal Ragona (1975) e da Reginella (1997, 2003) che ritengono l’opera stilisticamente tardo-barocca e quindi di fattura più antica.
Nel presbiterio trova posto il grande altare in legno intagliato e dorato (cm.600×360): la mensa poggia su due grandi volute, tra le quali trovava posto il paliotto, oggi non più esistente; i due gradini d’altare molto articolati si concludono con due angeli reggicandela; al centro il tabernacolo contornato da volute e sormontato dà una testa di cherubino privo della porta d’argento che raffigurava Cristo, oggi conservata nella Chiesa dell’Annunziata. La parte superiore è realizzata come una architettura a due ordini formata da volute e colonne scanalate, con capitelli corinzi e completata da una cupoletta. Nella nicchia centrale inferiore poggiava la statua secentesca di San Benedetto, oggi non più esistente, nella nicchia superiore invece un altorilievo dell’Assunta.
L’altare probabilmente è stato realizzato in due fasi successive: stilisticamente la parte inferiore di gusto ancora barocco è databile all’inizio del XVII secolo, mentre la parte superiore fu probabilmente aggiunta successivamente verso la fine dello stesso secolo quando già il gusto neoclassico cominciava ad influenzare gli artisti locali. Da tutti gli studiosi l’altare è citato come fulcro della decorazione interna della Chiesa.
Ai lati del presbiterio vi sono due grate di ferro dorato (cm 119×213), quella di sinistra arricchita da rilievi lignei intagliati e dorati raffiguranti ai lati due angeli adoranti, al centro “Eucarestia”, sotto il pellicano tra le fiamme, in alto festoni e teste di cherubini e un piccolo baldacchino ancora ricoperto di seta settecentesca. La grata era utilizzata dalle monache per ricevere la Comunione.
L’opera, citata da numerosi studiosi, è una preziosa testimonianza dell’esistenza di un colto artigianato settecentesco che continuava una fiorente tradizione isolana
Particolarmente grandiosa è l’inferriata a ventaglio che chiude il coro da dove le monache assistevano alla Messa. La decorazione è realizzata da volute e rosette in ferro battuto dorato. Non meno artistiche sono le altre inferriate, tutte a motivi ornamentali diversi, alle finestre che dagli ambienti dell’antico monastero, si affacciano nella chiesa.
Sul pavimento sono poste quattro lastre tombali, opere di lapicidi locali di cultura barocca: la prima del sacerdote Giacomo Amato, morto nel 1644, è collocata davanti al gradino di accesso al presbiterio ed è in marmo intarsiato; la seconda è al centro della chiesa e segna il punto di accesso della cripta adibita alla sepoltura delle monache. La lapide in pietra scolpita (cm 185×120) raffigura una monaca con ai lati i simboli benedettini. Le altre due lastre marmoree in marmi mischi si trovano ai lati del pavimento sotto due monumenti funebri, a sinistra una lapide con uno stemma di difficile interpretazione, alla destra la lastra tombale di Villaragut e Faso.
Su ogni altare laterale è posto un dipinto con cornice e tre di questi sono stati restaurati dalla Soprintendenza di Palermo nel triennio 1991-1993.
Il dipinto raffigurante “S. Benedetto che indica la regola alle Benedettine” olio su tela (cm 345x 230), posto sul secondo altare a sinistra, citato dagli studiosi (Giacomazzi, Sunseri Rubino) come anonimo siciliano è attribuito invece, da Cuccia (1988) a Mariano Rossi, mentre Gioacchino Barbera (1994) lo assegna ad un autore più vicino alla maniera di Vito D’Anna, o ai fratelli Manno.
Sul primo aitare a sinistra vi è la “Madonna della Neve con San Lorenzo e S. Stefano”, olio su tela (cm.300×190), attribuita ad Antonino Spadafora, autore attivo tra il 1572 e il 1594, che usa un linguaggio ancora manierista, ma accoglie istanze di rinascita religiosa vicine ai canoni della Controriforma.
La tela del secondo altare di destra, il “Crocifisso tra San Benedetto e Santa Scolastica” (cm 340×230) è firmato Francesco Quaraisima e datato 1632.
La tela sul primo altare a destra raffigurante l’“Immacolata Concezione” è opera datata 1613 e siglata VLB, Vincenzo La Barbera, architetto e pittore. L’opera dell’artista termitano è caratterizzata dal continuo sperimentalismo della cultura tardo-manieristica, ma nell’opera della Badia le linee si ammorbidiscono, lo stile è più decorativo e il colore più morbido. L’opera non è restaurata.

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