Fulvio Pierangelini, il genio e la semplicità

Lo chef Fulvio Pierangelini
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di Maria Mattina

Vulcanico e istrionico, autoironico e indipendente, lo chef Fulvio Pierangelini racconta la sua trentennale carriera e le sue passioni in cucina.

L’occasione per incontrarlo è stata la visita a Villa Igiea che si apre alla città dopo il recente restauro offrendo il brunch domenicale, ma anche colazioni, pranzi, aperitivi e cene.

Pierangelini dal 2008 cura tutti i ristoranti degli alberghi italiani della catena Rocco Forte, che ha acquisito il gioiello liberty dell’Acquasanta. Tra aneddoti e ricordi, ecco la sua filosofia di cuoco che ha sempre puntato alla valorizzazione dei cibi semplici ma di qualità, anticipando i tempi e le mode.

All’Osteria Francescana di Modena lo chef Massimo Bottura nel suo menù degustazione propone piatti rivisitati di grandi chef. Tra questi, i ravioli di capesante e mortadella, chowder di finocchio e mela marinata, rivisitazione del suo famoso “Capesante e mortadella”. Cosa ne pensa?

“Le capesante ripiene di mortadella sono state un piatto importante della mia cucina, un piatto che mi divertiva. La capasanta ha una carne delicata, meravigliosa, magra, quindi l’idea di giocare accostandola con un ingrediente grasso mi intrigava molto. In realtà, dietro c’è un episodio da raccontare. Alcuni giornalisti dovevano fare l’inaugurazione di un grosso show room a Milano e mi hanno detto che se avessi partecipato avrei trovato ostriche e champagne. Che tristezza! Che malinconia! E infatti gli ribatto: facciamo capesante e lambrusco. L’idea piace e mi chiedono di realizzarla.

E quindi io comincio a fare questo piatto divertente che aveva tra gli ingredienti anche le mele e i finocchi. E’ un piatto che ha avuto successo e 4 versioni, nel senso che ogni anno c’era una versione completamente nuova. Cunei di mortadella che venivano inseriti nella capasanta e scaldandosi davano un po’ di grassezza alla capasanta, con una crema speziata di mela e un finocchio candito. Dolce, grasso, acido, senza volerlo”.

“L’ingrediente nobile – spiega Pierangelini – coniuga l’ingrediente povero. Da sempre cerco di cucinare in questo modo. Ed è per questo che io mi danno per far sì che l’ingrediente apparentemente umile diventi la vera star del piatto. Se io faccio la patata con l’aragosta, è chiaro che io metto tutta la mia anima nella patata, perchè con l’aragosta è troppo facile. Quindi la patata deve diventare la diva di quel piatto, non l’aragosta, perchè sarebbe troppo facile. Ho sempre fatto una cucina da mangiare, non per stupire. Il cibo non si rivisita, si evolve, cambia”.

In giro ci sono cibi per tutte le tasche o falsificazioni di alimenti?

“Oggi ci vogliono far credere che sentire il profumo del tartufo tutto l’anno sia una democratizzazione di un prodotto, in realtà è un modo scellerato per offendere un prodotto dal patrimonio unico, illudere che possa diventare accessibile a tutti, togliere qualunque significato a questo prodotto. E non c’è nulla di democratico in un olio al tartufo, che è un olio di quinta categoria, con l’1% di un aroma. Un olio da due euro viene venduto a 25, e tutti ci riempiamo la bocca che possiamo avere l’olio al tartufo. Oltretutto sono convinto della pari dignità, per me una patata ha lo stesso valore di un tartufo. Se la patata si dovesse andare a cercare e il tartufo si potesse coltivare, probabilmente il prezzo sarebbe diverso. Non mi piace che tutto possa sembrare per tutti, per esempio 15 anni fa dissi delle cose pesantissime su internet e pagai caro le mie esternazioni, Cazzullo le scrive oggi sui libri e tutti sono d’accordo con quello che dissi io 15 anni prima”.

Come nasce un suo piatto?

“Oggi tutti dicono: nel mio piatto ci deve essere un po’ di acidità, un po’ di questo o di quello. Io non ho mai usato questo metodo. Detesto doversi sedere al tavolo e studiare il piatto. Il mio piatto viene fatto perchè c’è una necessità, c’è una urgenza che io devo assolutamente risolvere. Poi, posso entrare in cucina con una melanzana per fare una parmigiana ed esco con un dessert, questo è sempre successo, però il mio piatto deve essere frutto di una emozione, non di uno studio. Dopodichè il mio piatto è finito, è chiaramente impreciso, ma io adoro la mia imprecisione. Io potrei anche perfezionarlo, vezzeggiarlo, sistemarlo, ma a quel punto il piatto sarebbe preciso ma perderebbe completamente l’energia della creazione dell’istante”.

I suoi rapporti con la televisione?

“Sono andato in televisione quando ancora non c’era la moda degli chef in tv, quando gli chef hanno cominciato ad apparire non sono più andato io. Nel 2008 la BBC mi chiese di fare l’ospite d’onore alla puntata finale di Masterchef Inghilterra, quando in Italia non si sapeva cosa fosse. Io non ricordo se ho risposto di no o non ho nemmeno risposto”.

Il Gambero Rosso è un marchio che ha avuto un grandissimo successo, oltre che il nome del suo ristorante. Qual è la storia?

“Il mio ristorante Gambero Rosso nasce nel 1980. In realtà già aveva questo nome. Ho comprato il locale, avrei voluto cambiare il nome, ma era troppo complicato. Poi già cominciavano a scrivere di me, non c’era internet, io ero in un paesino sperduto, San Vincenzo, lontano da Dio, l’unica strada per arrivare era a due corsie. Se trovavi un camion o un trattore da Roma impiegavi 5 ore, da Milano 10. E quindi l’unico modo per farsi conoscere erano i giornali o la televisione. E allora ho deciso di non cambiare nome.

Gambero rosso era il nome popolarissimo di tanti ristoranti, quasi ogni paese aveva un Gambero rosso. Non l’ho inventato io, è il nome dell’osteria dove il Gatto e la Volpe vanno a mangiare con Pinocchio.

Stefano Bonilli, un giornalista economico, era in vacanza insieme ad altri colleghi a Bolgheri. E si infatuò perdutamente di me e della mia cucina. Questi giornalisti fanno scoprire il ristorante, iniziano a scrivere un inserto mensile sul Manifesto, da lì nasce la rivista, poi la guida dei vini, poi la televisione, poi la guida dei ristoranti, tutto col nome del Gambero Rosso in mio onore. Io sono sempre stato vicino a loro, ma non ho avuto mai niente a che vedere direttamente”.

Mi sembra di capire che lei non ama apparire

“Io adoro apparire, andare in televisione, farmi truccare, ma non a tutti i costi. Non mi sento di criticare un certo tipo di televisione, ho fatto tv sia in Italia ma soprattutto in Europa, un programma in Francia in seconda serata che ha fatto 6.000.000 di spettatori. In Italia ci vuole la finale di un campionato per fare questi numeri.”

Ha iniziato a lavorare prestissimo

“A 16 anni ho cominciato a fare il bagnino in un villaggio. E’ durata per due anni, poi ho imparato ad andare in barca ed ho fatto l’istruttore di vela d’estate e lavoretti d’inverno, che mi hanno permesso di pagarmi l’università e di vivere. Quando mi sono laureato, già lavoravo da dieci anni.

Laureato in scienze politiche, sognavo di fare l’ambasciatore. Poi ho scoperto che gli ambasciatori sono l’opposto di quello che immaginavo io, nella maggior parte sono grigi. Io sognavo di essere l’ambasciatore delle feste, della corte di Versailles. Quando ho capito che il mio limite era non avere due cognomi ed essere politicamenete abbastanza impreciso, ho compreso che per me sarebbe stato veramente complicato fare la carrera diplomatica.

Mio papà lavorava con i cavi telefonici alla Sirti, e noi lo seguivamo (tutta la famiglia) in giro seguendo il suo lavoro. Quando ho aperto il ristorante non ho fatto nessuna indagine di mercato, nessuna ricerca, volevo vedere il mare, cucinavo, era meraviglioso, ignoravo l’esistenza delle guide. Oggi nessuno potrebbe immaginare di aprire un ristorante in un posto sperduto, lontano dalle città (la più vicina a 100 km), la Ilva vicino, non c’era commercio, non c’era nulla. All’inizio io cucinavo a pranzo per gli operai della SIP, 5000 lire a persona. Però volevo cucinare, mi divertiva.”

Inizi umili, ma poi sono arrivate due stelle Michelin

“E dopo essere arrivato alle due stelle Michelin, ogni anno – quando usciva la guida – gli articoli erano sempre su questo tono: anche per questa volta la Michelin non ha dato le tre stelle a Fulvio. Io avevo litigato con loro, ospite alla trasmissione Porta a porta ero stato esasperato, ma era in diretta, non si può tagliare…

Insomma ero il numero uno su tutte le altre guide, ma non sulla Michelin che non mi dava le tre stelle. Tutti dicevano che le meritavo, lo dicevano pure in Francia. Infatti la più importante trasmissione televisiva l’ho fatta in Francia, tutt’ora i miei più grandi estimatori ed amici sono francesi. Prima non esistevano tante cucine, era la Francia che dettava legge. E se tu sei adorato in Francia vuol dire che sei bravo. Però niente tre stelle.”

Quando comincia il suo rapporto con Sir Rocco Forte?

“Comincio a lavorare con Sir Rocco nel gennaio 2008, ad ottobre lascio il Gambero Rosso. Sapevo che avrei perso visibilità, fama. Tutti mi dicevano: Fulvio tra sei mesi nessuno si ricorderà più di te. Invece sono passati più di 12 anni e non è stato così. Non sono scomparso, mi sono messo da parte, come Nanni Moretti. L’unico mio rammarico è che nel mondo della ristorazione ho avuto tante incomprensioni.

L’unica persona che sono sicuro che mi adora è Sir Rocco Forte, altrimenti non sarei qui. Prima coordinavo i ristoranti di tutto il mondo, poi la catena si è ampliata troppo e quindi adesso mi occupo solo dell’Italia e di Bruxelles. Sono felice di stare a Palermo. È un grande privilegio stare a Villa Igiea. Non ho rimpianti, nessun rimorso per la vita precedente. Rifarei la stessa scelta.”

Villa Igea

Come riesce a conciliare la sua cucina d’autore con quella di una catena alberghiera?

“Conciliare è un parolone, diciamo che io metto a disposizione tutte le conoscenze, tutta la mia sensibilità, tutto me stesso, tutto il mio know how, tutta la mia passione al servizio di un’altra cosa che sto facendo, che somiglia parecchio ma non è esattamente quello che facevo prima. Anche quando seguivo le cucine di ristoranti in tutto il mondo il filo conduttore era lo stesso. Il pensiero, il rispetto per le materie prime, la cura, la tecnica e poi le variabili. Io sto mettendo tutto me stesso, tutto quello che ho, tutto il bagaglio di lavoro al servizio di questa avventura. Faccio delle cose diverse, ma faccio sempre il mio lavoro.

Bisona tener conto di clientela e collaboratori. Siccome il giocattolo non è mio, devo averne una cura maggiore. Se fosse mio, potrei anche romperlo, ma io sono più attento alle cose degli altri che alle mie, per la mia dignità che mi obbliga ad essere rigoroso con me stesso.”

Lei precorre i tempi…

“Purtroppo sì, mi hanno detto che questo è un difetto e non un pregio, perchè non sei mai contemporaneo. Soffri sempre, perchè non vieni capito, perchè sei sempre fuori tempo.”

Un piatto che la identifica?

“C’è un piatto che ho umiliato, bistrattato, tolto dalla carta. Però lui c’è sempre. E’ la passatina di ceci con gamberi, che è il mio piatto più copiato, che non mi appartiene neanche più, perchè ormai appartiene alla cucina italiana, ormai non è più un piatto gastronomico di Fulvio Pierangelini. Ha tre soli ingredienti ed è nato in pieno periodo di nouvelle cousine, quando ogni piatto doveva avere quattro righe di spiegazione. I piatti allora erano ridondanti, io con tre ingredienti e un nome semplice ne ho fatto uno che hanno copiato in tutto il mondo. E’ il piatto che mi ha reso famoso, anche se ne ho fatto almeno 10 più belli.

C’è un filo rosso che accomuna i prodotti poveri e a basso costo che hanno attraversato la storia dei Paesi Europei e del Mediterraneo e la loro cucina. Pensiamo ai ceci che si trovano nella farinata ligure o nelle panelle palermitane, ma anche nell’hummus e nei falafel del Medio Oriente. Oppure i tanti liquori al finocchio selvatico che è molto comune. E ancora, in qualche modo, l’uso dell’anice nel pastis del Sud della Francia o nell’anisetta italiana per continuare con l’ouzo greco. Dobbiamo oggi ripercorrere e recuperare queste radici della nostra cultura, della nostra tradizione, i prodotti che hanno fatto la nostra storia.

E poi c’è tutta una serie di piatti che ho fatto una volta e che non farò mai più, che non mi ricordo più, perchè io non ho mai scritto niente, non prendo appunti, adesso che sono rimbambito sono sicuro che tutto è perso. A volte mi chiedono: “Ti ricordi quel piatto buonissimo, l’astice di primavera?”. Innanzi tutto un nome così stupido non l’avrei mai dato ma chissà com’era….I piatti sono frutto di un momento che non voglio sciupare, perchè voglio che rimangano dei momenti, per non rovinarli”.

La sua è arte pura….

“No, io faccio il cuoco. I piatti erano un modo per dimostrare il mio affetto a una persona. E quando qualcuno del tavolo vicino a me li chiedeva pure per sé, era un casino perchè io non li rifacevo.”

E’ sempre stato uno spirito libero...

“Uno che a 16 anni comincia a lavorare tanta libertà non ce l’ha.

Comunque ancora le mie storie, le mie interviste, le mie idee, oltre ai miei piatti, vengono copiati dai miei colleghi”.

Chi è il cuoco oggi?

“Io penso che la cucina è una storia di donne e a loro dovrebbe ritornare, perchè detengono naturalmente la bellezza del gesto, invece noi uomini ci siamo appropriati di questo luogo intimo. Il cuoco moderno deve essere un manager, uno psicologo, avere un addetto stampa, cose che io non non ho mai fatto.”

Cosa mangierebbe volentieri adesso?

“Se potessi scegliere andrei a Scopello, comprerei le splendide arance del Portogallo (lo sa che è una qualità di arance bionde che anticipa di circa 300 anni le navel americane?) che coltivano ancora nel giardino del più bel negozio di alimentari che io conosca, mi farei preparare del pane cunzato e andrei a mangiare seduto davanti ai Faraglioni. E sarei felice.”

Programmi per il futuro?

“Sopravvivere.”

Desideri?

“Vorrei poter leggere un libro senza pensare. Tutto quello che non posso modificare non fa parte di me, in tutta la mia vita non ho detto che caldo, che freddo. A volte, però, mi mancano le vampate di calore della cucina.”

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