IPPOLITO CAFFI 1809 – 1866 “Tra Venezia e l’Oriente”
150 anni fa muore, durante la battaglia di Lissa nell’affondamento della Re d’Italia – sulla quale si era imbarcato per testimoniare le vicende belliche con l’incisività dei suoi disegni – Ippolito Caffi (1809-1866), bellunese di nascita e veneziano d’elezione, straordinario pittore-reporter, irrequieto osservatore della società e convinto patriota. 150 anni fa (quasi un segno del destino!) il Veneto e Venezia vengono annessi all’Italia. Venezia: la città che Caffi ha maggiormente amato, lottando per la sua libertà, e di cui ha tradotto in pittura la struggente bellezza, con una capacità di sintesi che non ha eguali in tutto il secolo.
È in questa coincidenza di ricorrenze che l’imponente fondo di dipinti di Caffi appartenente alla Fondazione Musei Civici di Venezia – che ha avviato un’intensa attività di valorizzazione del proprio patrimonio – viene esposto integralmente, a distanza di cinquant’anni, in una grande mostra in programma al Museo Correr dal 28 maggio al 20 novembre 2016, promossa dalla Fondazione MUVE insieme a Civita Tre Venezie e a Villaggio Globale International e curata da una delle massime studiose del pittore, Annalisa Scarpa.
Una mostra che è un tributo a quello che possiamo considerare il più moderno e originale vedutista del tempo, insuperabile nell’immortalare con la sua pittura di luce l’anima di luoghi e di popoli incontrati in tanti viaggi in Italia, in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Ma soprattutto un tesoro – pressoché inesplorato e stupefacente nel suo complesso – che finalmente riemerge: un nucleo pittorico di oltre 150 opere che la vedova di Caffi, Virginia Missana, ha donato alla città nel 1889 insieme ad altrettanti disegni sciolti e a ventitré album. I dipinti di Caffi – abitualmente conservati nei depositi di Ca’ Pesaro e di cui si realizza ora il primo catalogo ragionato edito da Marsilio – danno testimonianza di tutte le città e le regioni visitate e sono la più completa raccolta esistente del percorso artistico d’un pittore dell’Ottocento che fu viaggiatore instancabile ora per inquietudine personale, ora per insaziabile curiosità culturale.
Fossero i luoghi del suo viaggiare una scelta, come il Vicino Oriente ma anche Roma e Napoli, o fossero mete obbligate dalla propria militanza patriottica, egli ce ne ha lasciato un’immagine artisticamente viva, vitale e socialmente inedita nella capillarità dei suoi vagabondaggi e delle sue esplorazioni. Ne emergono istantanee di monumenti, di architetture, di spazi urbani e di vita sociale che colgono e trasmettono tanto poeticamente quanto meticolosamente il volto di gran parte dell’Ottocento. Ne emerge soprattutto la modernità della pittura di Caffi rispetto ai canoni del suo tempo.
Definito per la sua abilità prospettica l’ultimo erede di Canaletto, Ippolito Caffi supera in realtà ed elude la tradizione canalettiana, arricchendola con un’accentuata comprensione del dato atmosferico e un ricercato studio sugli effetti di luce, fino a traghettare il genere del vedutismo verso la contemporaneità. È una luce “emotiva” quella che Caffi traduce in pittura e che rende i suoi quadri tanto poetici, affascinanti e amati; una capacità di analisi di ogni sfumatura ambientale così come di ogni elmento architettonico e urbanistico percepito con inusuale empatia. Una miscela geniale di bagliori artificiali e di luce naturale: effetti chiaroscurali che scardinano il concetto di vedutismo tradizionale, applicando un’inedita ottica che raggiunge formule modernissime, in un gioco continuo tra il “sublime” e il “pittoresco”. Ecco Ippolito Caffi, artista ma anche uomo travolgente: una vita che scorre come in un romanzo tra arte e passione politica.
DAI BAGLIORI DELLE VEDUTE AL CLAMORE DELLE BATTAGLIE. ARTE E VITA DI IPPOLITO CAFFI – LE OPERE IN MOSTRA
Sarà a Roma, dove giunge nel 1832 – abbandonato il “soffocante” ambiente dell’Accademia di Venezia che frequentava dal ’27 – che Caffi imbocca definitivamente la strada del vedutismo raggiungendo ben presto un’autonomia creativa che lo porta a rapido e sicuro successo. La Città Eterna è stimolante, ricca di fermenti innovativi, crocevia di artisti provenienti da tutta Europa latori di formule nuove e di nuove esperienze.
A Roma il giovane Caffi si sente libero di sperimentare e un primo breve soggiorno a Napoli – città che lo incanta – lo arrichisce ulteriormente, mettendolo in contatto con il colore smaltato e lucente della Scuola di Posillipo, con le opere di Gigante e di Carelli. Dopo aver abitato presso il cugino Paoletti che lo introduce nell’ambiente romano, prende casa al numero 25 di via Vittoria, a due passi dal Caffè Greco: luogo di frequentazione di molti artisti e di quel Circolo fotografico che catalizzerà gran parte del dibattito culturale di quegli anni.
Sono del 1834 le prime opere vedutistiche conosciute e databili del giovane artista e tra queste vi è la Trinità dei Monti di Ca’ Pesaro. Caffi delinea in questi anni (terrà base a Roma fino al 1848, pur con frequenti viaggi a Venezia e Belluno) anche il metodo di lavoro che seguirà per tutta la vita: realizzare sul luogo, en plein air, la prima ripresa, modelli di piccole dimensioni, disegni e appunti che poi elaborerà in studio. E sono soprattutto questi modelli – dai quali generalmente non volle separarsi – a costituire il grande tesoro dei Musei veneziani, grazie alla donazione della moglie: le prime e più istintive versioni di soggetti replicati più e più volte negli anni.
Caso esemplare è la prima redazione nel 1837 del Carnevale di Roma. La festa dei moccoletti: forse il motivo più noto dell’artista con un’ambientazione ad effetto giocata sul contrasto luministico che, seppure poteva apparire forzata, decreta il successo universale di Caffi.
Ne realizzò, stando alle fonti, 42 versioni e le due di Ca’ Pesaro – entrambe datate ‘37, una in formato orizzontale, l’altra verticale dedicata al momento conclusivo della festa, quando la baraonda va scemando – sembrano essere appunto i “modelli” delle tante repliche.
Negli anni seguenti – tra Roma, Venezia e una breve permanenza a Trieste – Ippolito elabora alcuni dei suoi soggetti più amati: le vedute dei Fori, di Castel Sant’Angelo e quelle del Colosseo, di giorno e di notte, con luci e fuochi artificiali o anche al chiaro di luna, come nella geniale invenzione di Ca’ Pesaro del 1843 in cui l’effetto romantico delle variazioni luministiche suggerisce nuove percezioni atmosferiche; e poi le vedute di Venezia con il Canal Grande, il Ponte di Rialto o il Campanile di San Marco, ma anche con l’inusuale Venezia: festa sulla via Eugenia di cui si conserva nelle raccolte civiche una versione, datata 1840, miscela geniale di bagliori artificiali e di luce naturale.
Di questi anni dovrebbe essere anche Venezia: neve e nebbia (1842), opera divenuta simbolo di un radicale cambio di registro nella pittura dell’Ottocento. Il pittore bellunese ci consegna qui un’immagine indelebile, e al di là di ogni retorica, di vita vera; ci fa sentire immersi in quella nebbia, infreddoliti da quel rigore invernale, protagonisti esterni ma partecipi di un fenomeno atmosferico colto con straordinaria poesia.
“Se ci fossero possibili dubbi sulla modernità di Caffi rispetto ai paradigmi del suo tempo – scrive Annalisa Scarpa – la geniale invenzione che sta alla base di questo dipinto, li fugherebbe all’istante”. Finalmente nel 1843 Caffi salpa da Napoli – di cui lascia immagini memorabili – per il viaggio tanto agognato in Oriente. La sua curiosità intellettuale, il desiderio di conoscere di persona questi mondi favoleggiati in letteratura e in pittura, lo spirito d’avventura – quello stesso che qualche anno più tardi lo porterà in volo sul pallone aerostatico, lasciandone memoria viva nel bellissimo quadro esposto in mostra – lo spingono ad affrontare un viaggio non facile e di certo periglioso che sarà tappa fondamentale della sua crescita umana e artistica. Grecia, Turchia ed Egitto e poi giù fino alla Nubia e poi ancora Siria, Armenia, Palestina e di nuovo Grecia, ad Atene. Tornerà arricchito di un’inedita comprensione della luce e delle sue rifrangenze, di una capacità nuova nella resa di quel “caldo rimbalzare e baluginare contro marmi candidi e distese sabbiose senza confine, dove la linea dell’orizzonte si perde all’infinito”.
Tornerà con l’Oriente per sempre negli occhi e nel cuore. Al rientro in Italia tuttavia – con l’intensificarsi dei fermenti risorgimentali che scuotono la Penisola e ch’egli registra nei suoi lavori con entusiasmo – esplode anche la passione patriottica. Da sempre vicino a intellettuali e circoli libertari, spirito rivoluzionario e romantico, egli ricerca l’impegno in prima persona: grida assieme alla folla il suo evviva a Papa Pio IX che benedice l’Italia; informato dell’insurrezione veneziana contro gli Asburgo si unisce alle truppe dei “crociati bellunesi” a Palmanova; vive la sconfitta a Visco Iliria combattendo e testimoniando con partecipazione la disfatta in un’opera unica, parte del fondo di Ca’ Pesaro, Visco Illiria: assalto del 17 aprile 1848. Catturato, infine, confinato a Belluno, ricercato dagli austriaci per propaganda, Ippolito si rifugia tra le montagne dell’Agordino e poi si reca di nuovo a Venezia per unirsi alla resistenza, che vede tra i suoi protagonisti Daniele Manin. Anche in questo caso impugna le armi, ma non dimentica il suo animo di pittore-reporter e ottiene il permesso di tratteggiare memorabili memorie degli eventi bellici, come quella del bombardamento di Marghera cui assiste con dolore – Bombardamento notturno a Marghera, 29 maggio 1848 – che resta, tra le opere dei Musei Civici una delle più impressionanti e struggenti.
Con la disfatta di Venezia, iniziano anni di continue peregrinazioni, poiché Caffi, per omonimia e per una bravata alla quale in realtà non prende parte, finisce nelle liste di proscrizione ed è costretto a lasciare la laguna insieme alla moglie Virginia, sposata in quello stesso 1848. Trova temporaneamente rifugio a Genova; va a Novara e Torino lasciandocene suggestive visioni urbane; si spinge fino a Nizza, Ginevra e Losanna; espone a Londra (città viceversa di cui non sono mai state rintracciate le vedute che pur narra di aver eseguito) e a Parigi che immortala in due opere, davvero poco conosciute, che ora il pubblico potrà ammirare in mostra.
Arte e passione patriottica s’intrecceranno ormai fino alla morte. Tornato a Roma nel 1855 il pittore darà vita ad alcune delle tele più famose e amate, come l’Interno del Colosseo visto dall’alto, e – ammesso nuovamente a Venezia per potersi scagionare dalle accuse – elaborerà invenzioni geniali: dall’abbagliante luminosità di Panorama dal ponte della Veneta marina, in cui lo sguardo giunge fino al Molo e alla Basilica della Salute, alle seduzioni notturne di Serenata a San Marco o in Canal Grande e di Festa notturna dalla Piazzetta, di cui Ca’ Pesaro possiede questa volta una delle versioni di grandi dimensioni realizzate nel 1858. Il successo per Caffi è ormai assoluto: osannato anche dalla critica più prevenuta, tra i suoi committenti ci sono anche Papa Pio IX, da lui tanto ammirato, e il Granduca d’Austria Massimiliano d’Asburgo che gli chiede d’immortalare il suo ingresso a Venezia, in occasione di festeggiamenti memorabili.
La pittura di Ippolito ha raggiunto il culmine; ulteriormente inedita è la sua inventiva, creativamente sofferti i contenuti; la pennellata si è fatta ancora più guizzante, il suo senso della luce estremo, gli stimoli della nascente fotografia hanno aperto la via a nuove inquadrature. Eppure il suo animo è inquieto, afflitto di fronte alla desolazione e alla decadenza anche fisica di Venezia ormai allo stremo sotto il dominio Austriaco, ove il clima si è fatto pesantissimo, tra speranze per l’alleanza franco-piemontese, delazioni e arresti. Anche Caffi – siamo nel 1859 – accusato di alto tradimento sulla base di false prove, viene arrestato e trascorre tre mesi nelle carceri di San Severo. Quando finalmente esce è pronto a infiammarsi nuovamente per le notizie che giungono da Napoli, che raggiunge e ove assiste all’ingresso in città di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II, proclamato Re d’Italia. Era il 7 novembre 1860 e il prezioso modelletto esposto in mostra dà conto, con i suoi mille colori, del tripudio della folla e dell’entusiasmo del momento. Ottenuta la cittadinanza italiana nel ’62, seguiranno il rientro a Venezia e tanti altri viaggi per importanti esposizioni in città italiane, ma – come lui stesso scrive – anche “il bisogno di una scossa elettrica”.
Nel ’66 è a Milano, Genova e poi Firenze: espone, dipinge, incontra amici e parla di libertà. Quando l’Italia, per mantenere gli accordi con la Prussia sotto attacco, dichiara guerra all’Austria nel giugno di quell’anno, mentre La Marmora viene sconfitto a Custoza e Garibaldi infiamma gli animi avanzando dalla Lombardia al Veneto, Ippolito ottiene il permesso d’imbarcarsi nella flotta destinata alla difesa delle coste Adriatiche. Il pretesto, perfettamente in linea con i suoi desideri, è testimoniare le vicende belliche con i suoi schizzi e appunti visivi – quelli dei suoi straordinari taccuini di cui un assaggio è esposto in mostra – e vivere la storia da protagonista; l’esito sarà tragico e segnerà la fine dell’epopea di questo grande artista visionario e sognatore.
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